La normalità.

Un’altra causa di incredibili ritardi nella diffusione della cultura dell’integrazione è data da alcuni modi di elaborare, di sentire emotivamente e di vivere il concetto di normalità.

Di solito sul piano teorico puro non ci sono ostacoli nel riconoscere quanto ci insegna la scienza statistica: la norma è la media statistica dei livelli di ciò che osserviamo nelle unità esistenti nell’ambito scelto.

Per ogni fenomeno, che ci interessi, possiamo calcolare la media statistica, cioè la normalità, dei livelli osservati nelle varie unità presenti in un certo ambito.

Se cambia l’insieme delle unità presenti, ad es. perché allarghiamo l’ambito, cambia la norma (cambia la normalità).

Non esiste cioè una normalità assoluta, a meno che non vogliamo considerare tale la media statistica non ancora calcolata e forse incalcolabile dei livelli del fenomeno che osservo, esistenti nelle unità di tutto il mondo.

Se parliamo di un numero limitato di persone, cioè delle caratteristiche e dei fenomeni, che si possono esaminare nella loro costituzione, nel loro comportamento e nella loro operatività, fatto il calcolo della normalità relativa a una delle molte cose osservabili, dobbiamo riconoscere che il caso di una persona esattamente corrispondente alla norma è rarissimo (praticamente inesistente), e che tutte le altre sono più o meno distanti dalla norma, o per difetto o per eccesso.

Se a questo punto, per facilità e superficialità di collegamenti, si fa coincidere la norma con l’ordine, con l’equilibrio, con il diritto a vivere pienamente, e alla fine, purtroppo, con il valore della persona, tutti coloro che sono fuori dalla norma, e che quindi sono nella anormalità, sono guardati con sospetto, perché sono fuori dall’ordine e lo disturbano, non hanno il giusto equilibrio e non si può prevedere cosa faranno, ed è difficile riconoscere loro il diritto a vivere pienamente, perché queste loro modalità di vita incidono sulla vita degli altri, o arrecando un fastidio, o chiedendo un impegno, o addirittura proponendo un cambiamento personale, cioè la cosa più difficile, più scomoda, o più coinvolgente.

Pochi si ricordano che dobbiamo a persone anormali quasi tutto il progresso scientifico e artistico dell’umanità.

Molti di quelli che ora chiamiamo geni, perché hanno scoperto nuovi livelli di conoscenza e di bellezza, inizialmente sono stati considerati anormali, e per questo anche derisi, disistimati e persino processati e condannati.

Pochi si ricordano che dobbiamo all’assistenza alle persone anormali gran parte del progresso morale, civile e sociale: infatti, riconoscendoli come persone e soccorrendoli nelle carenze funzionali e relazionali, abbiamo imparato ad avere rapporti più umani e più veri.

La norma non deve essere usata come strumento per emarginare o per negare la nostra attenzione a chi ne è fuori.

Fleming non avrebbe mai scoperto la penicillina, se avesse guardato infastidito e disattento un fenomeno anormale, verificatosi in una delle sue colture di lieviti.

Come non saremmo ora astronomicamente tutti galileiani, se del processo a Galileo avessimo assunto come definitivo il giudizio di anormalità inflittogli.

Nella realtà esistono fenomeni e persone vicini o lontani da quella normalità che possiamo calcolare o pensare.

Probabilmente tutti “devono” esistere, nel senso che o non ne abbiamo ancora compresa la funzione, o sono il risultato della vita condotta fin qui dall’umanità passata e presente.

E siccome aiutare o premere o ordinare per far avvicinare alla normalità può essere la più anormale operazione possibile, il primo sentimento corretto deve essere l’assenza di condanne preconcette di ciò che esiste.

Giancarlo Cottoni