Disabilità e disabili

Noi oggi usiamo le parole disabilità e disabili con dei riferimenti voluti o inconsapevoli a significati circoscritti non ben giustificati.

Pensiamo infatti soprattutto alle minorazioni che derivano da carenze funzionali e alle persone che chiamiamo sbrigativamente “handicappati”.

Diciamo che quelle minorazioni ostacolano la loro integrazione e quindi che  gli “ handicappati” hanno difficoltà a realizzarla.

Da tempo alcuni di noi, mentre tutti parlano delle disabilità degli “handicappati” e della fortuna di coloro che non ne soffrono, hanno intuito che questa divisione di campo fra “handicappati” e normali, è assai debole e poco approfondita: alla fine è una divisione di comodo, che accontenta la presunzione dei normali e li giustifica nella loro lontananza dagli “handicappati”.

Forse non è intempestiva una ulteriore puntualizzazione dei concetti di disabilità e di disabile.

Incominciamo  constatando che tutte le persone nascono disabili: infatti non sanno parlare, non camminano, non hanno il controllo degli sfinteri, non capiscono le situazioni e i messaggi degli altri, non sanno mettersi in rapporto con loro, non sono autonomi, non sanno evitare i pericoli, ecc. ecc..

E’ probabile che certe emozioni e vibrazioni anche intense, che molti provano avvicinando la disabilità, siano dovute al riaffiorare dalla profondità dell’inconscio delle sensazioni spiacevoli, provate nella disabilità della prima infanzia.

Tutta la crescita è sostanzialmente il continuo graduale superamento della disabilità.

Sorreggono questo superamento lo sviluppo corporeo, intellettuale e    psicoaffettivo, cioè la messa a punto sempre più efficace delle funzioni e delle capacità di relazione, fra le quali c’è lo stesso rapporto fra uno strumento e le modalità del suo uso.

Gli ostacoli allo sviluppo delle funzioni (incompleto o distorto bagaglio genetico, patologie invalidanti, ritardi, ecc.) e la carenza di stimolazioni dello sviluppo delle capacità di relazione, tendono a conservare l’invalidità iniziale per tempi più o meno lunghi, o anche definitivamente.

Prolungandosi oltre il tempo della loro normale durata, appaiono ben presto, e successivamente sempre  meglio, due forme di disabilità: quella funzionale e quella relazionale.

Le disabilità funzionali, considerate in sé, non sarebbero molto significative, ma lo diventano come cause di disabilità relazionali.

Come dire insomma che l’unica vera disabilità è quella relazionale, cioè l’incapacità lieve o media o grave di avere rapporti efficaci con sé stessi, con gli altri e con la realtà.

Eppure l’interesse prevalente, che c’è stato finora per la disabilità, si è concentrato sulle sue cause funzionali, nel tentativo di risolverle e di liberare così la crescita delle capacità di relazione bloccate o rallentate.

Questo interesse deve certamente continuare, ma come momento di una ricerca ben più ampia sulle altre cause della disabilità relazionale.

Infatti anche in presenza di un normale sviluppo funzionale permangono disabilità relazionali: anzi potremmo addirittura dire che la disabilità relazionale non si riesce mai a rimuoverla completamente, rinnovandosi di continuo le situazioni che ci obbligano ad acquisire in ogni direzione e senza sosta nuove forme di relazione.

La rimozione delle disabilità relazionali, cioè l’aumento della competenza nell’avere rapporti, è possibile con l’educazione in tutte le sue forme: cioè nel rapporto insegnamento–apprendimento vissuto con un esperto, nell’esperienza diretta di una ricerca personale e di un tentativo programmato, nell’adeguamento ai valori visti in ogni testimonianza.

Il rapporto insegnamento–apprendimento, quando è autentico, vede due persone crescere insieme nella capacità di realizzare sempre meglio la loro relazione, dandosi per questo il continuo vicendevole aiuto del loro reciproco avvicinamento. E’ in questo modo che realizzano fra loro la situazione della maggiore integrazione possibile.

L’esperienza diretta di una ricerca e di un tentativo personali, stimola lo sviluppo del rapporto della persona con se stessa, mentre tenta di realizzare una relazione più profonda con una realtà di persone e/o di cose. Anche in questo caso la crescita della competenza relazionale fa aumentare il livello personale della capacità di integrazione.

Infine l’adeguamento ai valori delle testimonianze, delle quali siamo stati spettatori, non è altro che il riuscito tentativo di perfezionare e arricchire la nostra capacità di relazione, per l’intero ambito della sua applicazione. Ogni testimonianza valida insomma ci aiuta ad aumentare la nostra competenza relazionale e comunicativa, cioè la nostra capacità di integrazione.

Possiamo dunque concludere che il problema dell’integrazione è il problema delle relazioni, presente di continuo nella vita di tutti.

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Prima di concepirlo in questo modo, abbiamo commesso vari errori.

  1. Abbiamo ritenuto che lo avessero solo gli “handicappati”. Dovevamo aiutarli a risolverlo, noi che ne eravamo immuni, esercitando tutte le virtù: la pazienza, la sopportazione, la solidarietà, ecc., vincendo la repulsione, il timore del contagio, il disagio, ecc..
    Così abbiamo esercitato il pietismo, la nostra protezione dall’alto della nostra salute e autonomia, tutta la nostra consapevolezza di scendere meritoriamente dalla nostra superiorità.
    Beati quelli che non avevano questo problema, e sfortunati o disgraziati quei pochi (meno male), ai quali era toccato.
    A noi che non abbiamo il problema, che potevamo vivere l’efficienza, erano dovute occasioni normali (scuole, lavori, divertimenti normali e liberi); a loro servivano occasioni speciali (scuole, lavori, qualche divertimento, speciali e controllati).
    Insomma quella minoranza sfortunata doveva essere affidata agli specialisti in ogni campo, quelli medici in testa.
    La divisione fra normali e “handicappati” doveva ritenersi funzionale e giustificata.
  2. Nella scuola, quando si parla di integrazione, si pensa a quella degli alunni. I dirigenti e i docenti non c’entrano.
    Così si assiste stupiti alla contraddizione, nella quale essi cadono, quando dicono di volere l’integrazione fra gli alunni e non la realizzano fra loro. Cosi l’intenzione di aiutare gli alunni a integrarsi diventa una mera velleità.
    L’affermazione di alcuni operatori di non essere preparati ad affrontare certi problemi di integrazione diventa la confessione di non essere pronti a gestire certe relazioni: come dire di non essere all’altezza di tutto il compito proprio dell’istituzione, nella quale sono stati chiamati a lavorare.
    C’è nessuno che provvede a prendere nota di queste dichiarazioni e ad agire di conseguenza?
  3. Alcuni addirittura credono che siano gli operatori sanitari quelli che possono e devono risolvere il problema dell’integrazione. Ma non esiste distorsione più deviante, banalizzazione più grande e ricerca più interessata di alibi, di quella di chi medicalizza questo problema, che nelle persone ha la sua dimensione centrale nella loro competenza relazionale, bisognosa d’aiuto per crescere.

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C’è appena stata a Roma la prima Conferenza Nazionale su questo tema.

Tristemente abbiamo letto ancora una volta che si trattava di discutere le linee della “politiche dell’handicap” (sic!)

E’ proprio urgente cercare di “pensare meglio” al problema dell’integrazione, soprattutto a livello di coloro che guidano.

Giancarlo Cottoni